quell’espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova…

(come in tanti sanno, per quante volte l’ho ripetuto, io a Genova nel 2001 non c’ero. Bloccato a letto tre giorni prima dei cortei da un paio di vertebre che han deciso proprio in quel momento di andare a farsi un giro, dopo aver fatto di tutto per sostenere l’organizzazione, autofinanziare i viaggi ecc – ho passato giorni e notti attaccato a web e radio, a piangere sotto antidolorifici. Tanto per giustizia, eh.)

Cresce il dibattito, sulla valutazione degli scontri di Roma del 14. A botta calda ho detto la mia, e forse a freddo sarebbe un po’ da aggiustare, ma lasciamo perdere.

Oggi Saviano su Repubblica.it scrive una lettera ai manifestanti. Un po’ Pasolini a Valle Giulia, un po’ predicatore, mi colpisce soprattutto un pensiero, che mi è venuto subito leggendola: questi ragazzi, per la maggior parte, son venuti dopo.

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Il problema non è la caduta. Ma l’atterraggio.

Diciamo subito una cosa dopo i fatti di Roma oggi pomeriggio: gli scontri, la strada “militare” se volete, sono un’opzione. Farà impressione dirlo, e non è una strada che mi interessi, ma da sempre è stata una strada: anzi, la più facile e la più battuta. Però più che per altre strade, serve sapere dove si sta andando. Perchè ci si fa del male, a fare gli scontri, si perde sostegno da alcune parti e lo si guadagna forse da altre, ci si ferisce, si finisce fermati o arrestati, poi si innesca la solita spirale repressiva che colpisce a caso tutti gli altri, eccetera eccetera. Insomma proprio tutto già visto. Eppure siamo sempre qua. Siamo sempre a Münster come è raccontata in Q, o più semplicemente a Genova dopo aver raccolto Carlo Giuliani dall’asfalto. Non si riesce proprio, a immaginarsi un altro film? Da quell’asfalto, dicevamo, dobbiamo ripartire. Ma non restarci inchiodati, a cercar di pareggiare il conto, a cantare una canzone che ha 40 anni e li dimostra tutti, dicevamo. Anche stavolta qualcosa di nuovo già si poteva vedere, ma invece poi non si esce dalla ruota del criceto. It’s a rat race, per essere fedeli al nostro titolo, e tirare in mezzo una canzone.

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Book bloc i libri sugli scudi

Libri-scudo contro manganelli dei celerini. E parte l’immaginario.

Cosa ha reso immortale la “pantera”? Il suo nome.
Da una notizia di cronaca (un grosso felino, forse una pantera, in giro per le campagne di qualche località italiana…) a uno striscione: La Pantera siamo noi. E da lì, come una mazzata in testa all’immaginario collettivo italiano, in giro per sempre.

Sui giornali si discute sui Book bloc, e già la definizione suscita dibattito: è evidente il paragone (nemmeno troppo) nascosto con il black bloc del 2001 (eccoci, stiamo ripartendo da dove eravamo arrivati…) e con la sulfurea identità che gli è stata attribuita: di cattivi, di sprangatori, di rovinatori delle scampagnate di Genova… o chissà, forse nei ricordi di qualcuno, semplicemente di estremisti troppo permeabili agli infiltrati della polizia come quasi sempre succede.

L’idea nella foto qua sopra è geniale: in questa lotta per difendere la cultura come strumento di identità, di crescita e magari anche di guadagno e di sviluppo, sugli scudi ci sono disegnati i libri. E parte già lo stupore, di trovarci insieme Asimov e Saviano, e Deleuze di fianco a Petronio, e l’Isola di Arturo che resiste ai manganelli.

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Non siam scappati più.

La polizia martella teste di studenti su e giù per l’Italia. Le università sono in fermento, le aule e i rettorati vengono occupati. I migranti salgono sulle gru e sulle ciminiere. La lezione degli operai in lotta (che da mesi hanno preso a salire sui tetti delle loro fabbriche) ancora una volta fa scuola. Ricercatori e studenti universitari salgono sul tetto delle facoltà.

Che anno è? 😀

Di colpo, grattando un po’ più a fondo nella vergogna dell’itaglia di questi anni, ecco a voi la conflittualità.
Non era mai scomparsa, non è mai smessa. Solo veniva scopata sotto al tappeto, nascosta dai telegiornali.

Ancora non l’hanno capito, che c’è la Rete: Adesso state più attenti – perchè ogni cosa è scritta.

Magari è un’aria che dura il tempo di una nevicata – oppure mette radici e resta nella storia, come tante altre fiammate nate per caso nei tempi passati?
Tutti quelli che ancora tifano rivolta sanno la risposta.

Quello che colpisce me, è che solo davanti alla pratica si possono mettere in ordine le teorie. E allora mi ci metto.

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Papi Silvio in un paese senza genitori

Ancora una volta, gli ottimi Wu Ming (qui in particolare il #1) mi colpiscono dal loro Giap con una lettura assolutamente efficace del fenomeno che da troppi anni chiamiamo berlusconismo. Oltre a invitare tutti a leggere per intero non solo l’intervento ma anche la ricchissima serie di commenti (che di nuovo mi fa ritornare alla domanda di qualche giorno fa… ma è un altro discorso), val la pena di sintetizzare e chiosare il messaggio. Faccio il bigino dei post altrui? Sì, se serve a diffondere questa roba, anche sì.

La tesi interessante è che, come pensiamo anche da queste parti, l’itaglia sia non un paese arretrato e retrogrado, ma un’avanguardia di sperimentazione delle trasformazioni in corso. E queste trasformazioni, di cui quello là è metafora vivente, riguardano la morte, la sparizione della figura simbolica del padre – che naturalmente simboleggia l’autorità, l’Ordine se volete – che si può seguire o contestare, ma che qui invece è scomparso, svanito sia nella sua tradizionale forma del padre severo che in quella più moderna e progressista del genitore comprensivo. Questo non è necessariamente un male, e anzi mi fa tornare in mente provocatorii titoli di antiche riviste, che al top della repressione e della distruzione dei movimenti  titolavano fiere “la rivoluzione è finita – abbiamo vinto”, e in un certo senso avevano pure ragione, dato che il modello socio-economico (dell’operaio-massa, per capirci…) che avevano combattuto stava svanendo o quantomeno preparandosi a cambiare continente per sempre.

La distruzione dell’autorità è alla base di quasi tutti i movimenti radicali, compresi ovviamente quelli che producevano e leggevano quelle riviste – probabilmente proprio perchè, come suggerisce Wu Ming, la cornice della famiglia è stata da sempre metafora di questa autorità, a partire dalla mai troppo vituperata parola Patria, con il suo bravo elenco di Padri della Patria in allegato, eccetera eccetera. Quindi da questo punto di vista, la sparizione del padre è un successo?

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a volte apri gli occhi e vedi come vivi

Sì, naturalmente è la canzone dei Casino Royale, l’ennesima, a dire tutto quel che ho in testa oggi: Canzoni incastrate nei denti, è scritto lì sopra mica per niente.

A parte che è roba del 1995, che fa quindici anni tondi e non ci puoi credere. A parte che però suona come se fosse uscita ieri mattina. A parte che da quando è uscita, sono 15 anni che me la canto e me la ricanto e ogni volta ci tiro fuori qualche pezzo da scrivere sui muri.

A parte tutto c’è quella frase lì, che stamattina lampeggia nel titolo.

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Io se fossi dio…

E’ una vecchia canzone di Gaber.

Oddio, nemmeno tanto vecchia… ma come diceva lui, è roba per una razza in estinzione. Ci sono dentro praticamente tutte le cose che penso e credo, compresa la sacrosanta incazzatura contro chi mi ha tolto il gusto di essere incazzato personalmente, e il grido che Aldo Moro resta la faccia… che era – lui, e tanti tanti altri, persone e storie di cui non si può più parlar male perchè sono stati beatificati dalle pallottole di quegli altri idioti.

Non so se sentirmi bene, quando la ascolto, e pensare che almeno non sono l’unico… o stare male, a vedermi ributtare in faccia tutta sta roba.

Va beh, ascoltate e poi casomai mi dite la vostra. Continua a leggere

Aria nuova

Ho cambiato grafica, ho cambiato stile.

Cerco di cambiare andazzo, di non farmi risucchiare sempre e solo dalla terribile, incredibile cronaca che tutti i giorni ci versano in testa. Forse ha ragione, chi dice che il segreto è non sapere, non essere informati. Ma ormai è troppo tardi.

Ho cambiato atteggiamento, provo a parlare con tutti, addirittura.
Ad essere accomodante, a far parlare senza saltare alla gola. E’ il nuovo corso, baby.
Democrazia, confronto. E una montagna di cose di cui non è (più?) il caso di parlare.

Però ho una foto in testa, di una mano con una bomboletta che scrive su un muro. Di distese di graffiti. E di teste, e di grida, di rabbie. Di foto in bianco e nero che erano posti e momenti dove io stavo. Lì vicino al fotografo. Di corpi pigiati sotto un palco e di parole, da quel palco, che rimbalzano sui corpi e si amplificano e si moltiplicano. Di odio mosso da amore, come la canzone. Di corpi che si incontrano, di lampi, piccoli presagi di un mondo che viene.

E’ il mio chilometro zero, questo. Inner circle.
E la differenza ora sarà tra chi ha accesso a questa foto, e chi dalle buone maniere verrà cortesemente fermato ad anni luce di distanza. Get your filthy hands off my desert.

Scurdàmmuce o’ passato…

Con puntuale ritardo, giusto quell’ora e mezza per NON finire nemmeno nei tg della sera, i coraggiosi giudici di Genova ci hanno letto il dispositivo della sentenza che chiude il primo grado del processo sulle violenze ai fermati del G8 di Genova 2001, deportati nella caserma di Bolzaneto.

Adesso ditemi che è colpa dell’omertà che permea i corpi di polizia italiani (ma non era roba da mafiosi?), che è colpa del reato di tortura che in Italia non esiste (e però la tortura sì…), che è colpa dei depistaggi operati dagli stessi corpi di polizia (ma non servivano per assicurare giustizia e verità?); ditemi che la magistratura ha fatto tutto quel che poteva, che questo è già un risultato, anche se nessuno si farà un giorno di prigione e se due terzi degli imputati sono stati assolti e un terzo condannato alla metà di quanto richiesto. Perchè, davvero qualcuno si aspettava qualcosa di diverso?

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C’è aria di cambiamento in giro

Come sempre, la brace cova sotto la cenere.
Se vogliamo fare un po’ i fighi: la talpa scava e l’orologio gira.

Tra gli schiavi gira un’energia diffusa / e può accadere qualcosa, come dice la canzone; serpeggia a tratti nella vita normale, tra i viaggi di una settimana all-inclusive ai Caraibi e i commercianti che non sanno come si deve fare quando gli chiedi una fattura, appare e scompare, ma c’è qualcosa.

E’ come quando alla fine dell’inverno, certe mattine lo senti per un attimo, il profumo della primavera che arriva. Come quando anni di vuoto scivolano alla fine, e pian piano senza neanche saperlo qualcuno comincia a fare uno, due passi. E poi magari si gira e non è più da sol@.

C’è aria di poesia che ritorna, di libri da riaprire, di sepolti frammenti di luce da ripulire di terra e guardare come se fosse la prima volta. C’è tutta la notte, cominciamo.

Ed eccomi qua. Nel mezzo del cammino, dopo venti anni –
vent’anni in gran parte buttati, gli anni dell’entre deux guerres
a tentare di usare le parole, ed ogni prova
è un’altro nuovo avvio, e un diverso tipo di sconfitta.
Perchè si impara a tirar fuori il meglio, dalle parole,
solo per quello che non devi dire più, o per il modo
in cui non sei più disposto a dirlo. Così ogni impresa
è un nuovo inizio, un’escursione nello sconnesso
con l’equipaggiamento logoro che si deteriora sempre
nella confusione generale delle imprecisioni del sentire,
indisciplinate squadriglie di emozioni. E quel che c’è da conquistare
con la forza e la sottomissione, è già stato scoperto
una o due volte, oppure molte, da uomini che non si può sperare
di emulare – però non c’è competizione –
c’è solo la lotta per recuperare quel che è stato perduto
e ritrovato e perduto ancora e ancora: e adesso, in condizioni
che non sembrano propizie. Ma forse, non c’è guadagno nè perdita.
Per noi, c’è solo il provarci. Del resto non ci importa.

Casa è da dove si parte. Crescendo
il mondo diventa più strano, più intrecciato lo schema
di morti e viventi. Non l’intenso momento
isolato, senza prima nè poi,
ma una vita intera che brucia in ogni istante,
e non la vita intera di un uomo soltanto
ma di pietre antiche che non si può decifrare.
C’è un tempo per la notte alla luce delle stelle,
un tempo per la notte alla luce di una lampada
(la notte con l’album delle fotografie).
L’amore arriva quasi ad esser sè stesso
quando qui ed ora smettono di preoccupare.
I vecchi dovrebbero essere esploratori
qua o là non importa
dobbiamo essere ancora e ancora essere in movimento
in un’altra intensità
per una prossima unione, una più profonda comunione
attraverso il freddo buio e la vuota desolazione
grida l’onda, grida il vento, le vaste acque
della procellaria e del delfino. La mia fine è il mio inizio.