iBooks, eBooks, textBooks… e gli insegnanti?

Come prevedibile, l’entrata di Apple nel mercato dei libri di testo e più in generale dei contenuti educational, presentata nel suo evento al Guggenheim della settimana scorsa, ha ri-scatenato il dibattito mai sopito, su come dovrebbe essere la scuola di domani – o meglio di oggi, per i cittadini di domani.

Oddio, forse scatenato è una parola grossa per l’itaglia, che è un paese dove ci sono ancora a piede libero professori di scuola superiore che rivendicano con orgoglio che “io il computer non lo so nemmeno accendere“, e poi si domandano com’è che le loro classi di 17enni non seguono più le loro lezioni (uguali a quelle di venti anni fa) come i 17enni di venti anni fa.

Però tanti nomi “grossi” ne stanno discutendo, e allora anche io, che non sono nessuno, direi la mia.

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…è una delle poche cose fantastiche che noi abbiamo.

“Tardi, molto dopo che gli impiegati di mezza età che pagano il mutuo sono andati a letto, la rete assume una speciale carica mutagenica. Questa cosa simile ad una ragnatela è ora nelle mani di chi abita nei seminterrati, di chi ha l’insonnia, degli adolescenti che stanno con le luci spente e i computer accesi. La rete è una delle poche cose fantastiche che noi abbiamo e che i nostri genitori non avevano e, cosa ancor più importante, che nemmeno i nostri zii e zie yuppies, che avevano tutto, avevano. E’ il nostro terreno, noi l’abbiamo organizzata, noi ci viviamo”.

J.C. Herz, I surfisti di Internet, 1995.

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Internet è nuda. Inna rubadub style.

Mentre vado a Roma in treno, all’ora che di solito passo inscatolato in coda in qualche periferia, non posso non compiacermi di starmene con il rubadub in cuffia, il mio netbook sul tavolino del frecciarossa, la signora di fianco che occhieggia ogni tanto all’interfaccia grafica inconsueta (è Unity, signora – Ubuntu Netbook remix. Ha presente? :D) e soprattutto con la connessione umts che lavora. A dire il vero c’è anche una rete aperta “Wifi Frecciarossa” ma non si esce. Sarà magari un wifi di bordo a pagamento per la prima classe? Va beh, andiamo bene anche con la chiavetta internet – anche se le coperture italiane fanno cagare, tutte: filo, fibra, umts… e wifi libero nei due o tre posti in tutta italia dove c’è.

Due file più avanti, il solito itagliano truzzo parla al telefono ad un volume che lo sento da qua, anche con le cuffie. Solo che, noblesse “FrecciaRossa” oblige,  si sta sforzando con uno stentato gergo informatico, di spiegare a qualcuno che le pagine facebook non si possono leggere se non si è registrati e non si entra. Avesse frequentato un’ora degli incontri che faccio coi ragazzini di seconda media a scuola, saprebbe che non è così – almeno non in automatico. Ma va beh.

Di fianco a me, la cinquantenne in total black con gonna e stivali da venticinquenne (quella che spia Unity…) non ha ancora mollato il cellulare e sembra stia facendo uno psychiatric help a qualche coetanea in crisi. Desperate housewives, live edition.

Alzo il volume, che Junior Byles canta l’originale di Curly locks. Ma non mi dispiacerebbe nemmeno la versione di Sinead O’Connors, mille anni dopo.

E leggo questo post di Manteblog. Molto, molto bene.
Andiamo a Roma, dai. Anche se nemmeno stavolta aveanzerò tempo per rivedermi il cenacolo ripulito. Ma c’è di peggio, non ti preoccupare.

Inna rubadub style.

youtube è come la tv? perchè questi proprio non han mai visto altro…

Su Engadget.com, uno dei siti importanti a livello mondiale come osservatorio delle novità hardware e software, e degli annessi e connessi influssi sulla vita delle persone, esce un articolo sull’ultima bella invenzione della nostra AGCOM, passata ovviamente sotto silenzio sui grandi media in questo bel Paese, che “regolamenta” le webradio e le webtv, e già che c’è ovviamente sparge a piene mani inspiegabili vincoli, limiti e quelli che qualcuno chiamerebbe “lacci e lacciuoli” contro la rete… viene da chiedersi come è possibile che questi legislatori siano così ignoranti in materia: mai usato youTube almeno una volta per pubblicare qualcosa? Ecco, appunto: il sospetto che viene subito dopo è che non ci sono, ci fanno
Traduco qua (velocemente e male, ma tant’è…) il post, che mi sembra significativo – spero che la traduzione riporti correttamente il pensiero degli autori di Engadget, ma in ogni caso invito tutti ad andarsi a leggere l’originale e anche tutti i commenti, che dicono molto chiaramente cosa pensa il mondo di noi. Altro che paese d’o’ sole, quarta potenza mondiale, e tutte le puttanate che vi bevete ogni giorno dalla tv. Per l’ennesima volta, che vergogna:

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Commuters

Ieri ho visto un programma sul (fantastico) canale RaiStoria – si può vedere sul sito della Rai ma credo che pochissimi sappiano anche solo della sua esistenza.

Nel programma, un giovane Carlo Mazzarella si faceva spiegare New York da italiani residenti lì per lavoro, nel 1962: clamoroso il giro di Harlem guidato da Ruggero Orlando (oddio… realizzo solo mentre lo scrivo che in tanti non l’avranno nemmeno mai visto al tg) o l’incontro col muratore-scrittore italoamericano Pietro Di Donato, figlio di emigranti di Vasto e autore di libri che mi è venuta voglia di leggere.

Al di là del livello degli intervistati, e dello spessore delle interviste (roba che oggi un giornalista non saprebbe come chiedere…) più di tutto mi ha lasciato a bocca aperta la parte di reportage che segue la giornata lavorativa dell’impiegato-tipo, che si fa portare in macchina fino alla stazione dalla moglie (…”perchè le automobili per andare a lavorare, in America ormai non le usa quasi più nessuno: servono solo nei fine-settimana, per andare in campagna”…), poi prende il treno e arriva in città e la sera ritorna.

L’accompagnatore di turno (mi sfugge il nome ma… credo fosse l’inviato a NY del Corriere) chiama queste persone… commuters, con Mazzarella che replica: “ma in italiano come sarebbe questa parola?” Risposta: “Commuter è una persona che ogni giorno lascia casa sua e fa molti chilometri, almeno un’ora di viaggio, per recarsi a lavorare  – e altrettanto per tornare a sera. No, in italiano non esiste una parola così”.

Capito il fatto?

Nell’Italia del 1962, c’erano gli emigranti e i vitelloni e le lucciole… m non c’era una parola per dire cosa fossero i pendolari.

Queste son le cose che mi lasciano lì.
Che roba.

maliberoveramente.

Ci vorrebbe uno che su twitter ogni giorno manda “le bugie di oggi”.

Però sai che fatica? Solo ad aprire i giornali di oggi, ci trovi quella di quello là eletto direttamente dal popolo, quella di feltri su napolitano supporter (o come ha scritto) dell’unione sovietica, e non voglio pensare quali e quante altre.

Il fatto è che non serve parlare di come funziona la costituzione, di cos’erano i miglioristi, e di tutto quello che ogni persona sana e in grado di ragionare potrebbe tranquillamente ribattere davanti a questo fiume di palle. L’intelligenza non ha mai fatto granchè audience, ma qui ormai siamo alla cancellazione dai palinsesti.

Veramente, l’unica soluzione è fuggire a gambe levate dai media mainstream e difendere con le unghie e con i denti la rete – da tutti, anche dai sinistri con la regola facile (e la galera come corollario sempre pronto). Sarà faticoso, immaginare un posto liberoveramente?

Ecco, cominciamo a sforzarci. Immaginazione (via d-)al potere, please.
Possibilmente con una certa fretta.

Ci sono notti…

Mi è capitato in questi giorni di andarmene un po’ in giro.
Niente di che, niente paesi caraibici o lontano oriente… ho semplicemente accompagnato a Bruxelles, a visitare il Parlamento europeo, una truppa di una ventina di ragazzi e ragazze intorno ai 20 anni.

Forse meno impressionati di quanto lo sarei stato io alla loro età, di prendere aerei per girare l’Europa – di fatto solo uno non aveva mai volato – e sicuramente molto più ben-abituati… in media, borse e trolleys ben più grandi e piene dello zainetto minuscolo che stava sulla mia schiena, con tutto quel che poteva servirmi per due giorni soli (e anzi come sempre qualche vestito si è rivelato d’avanzo).

Ma non volevo parlare di questo.

Volevo semplicemente raccontare di come, a sera, seduto sui gradini dell’ostello, è arrivata la consapevolezza di essere ancora e ancora lì, seduto al fresco sui gradini di un ostello di Bruxelles, appunto, per la… terza? quarta? volta della mia vita, in un arco di tempo che copre più o meno quindici anni – e come fai a non fare paragoni?

A parte le banalità, come il fatto di aver organizzato tutto da qui via internet, invece di sudare tra telefonate internazionali, cambi di valuta, orari europei dei treni, corse e code in biglietterie… – a parte queste piccole straordinarie trasformazioni, è chiaro che la più grande è quella mia, della mia faccia, del mio corpo, di quel che ho in testa.

Senza rimorsi, come ho subito scoperto srotolando il filo dei pensieri e dei paragoni, e mettendomi al cospetto di me stesso a vent’anni – in ogni caso nessun rimorso.
Con qualche rimpianto, certo, avrei potuto, se avessi saputo, se avessi capito, allora avrei fatto… ma credo che da questo non si scappi – anche se qui a volte pesano tonnellate, e sono un tarlo che scava.

Tra le tante cose guardate passare, ha colpito il fatto che tante porte si siano chiuse, tante opportunità siano scivolate via lentamente, senza che quasi me ne accorgessi, solo per il motivo di aver fatto (o non aver fatto) determinati passi, determinate azioni, determinate scelte… che poi è difficile considerare tali, dato che poche volte sono state frutto di decisioni razionali, e tantissime altre invece semplicemente risultati del quotidiano passare la giornata e affrontare quel che mi è venuto incontro.

Mi sono guardato intorno, da quel gradino di Bruxelles, tra la Chapelle e un fantastico skate park all’aperto, pubblico e autogestito, messo lì quasi con noncuranza eppure così smisuratamente diverso da qui, come la gente che si siede nelle aiuole o in piazza senza nessun problema… Ho visto un sacco di porte chiuse, per sempre, senza più chiave. E altre aperte, che non si vede dove portino.

Ok, andiamo.